arte_roma_030_s_pietro_in_vincoli

San pietro in vincoli e il Mosè di Michelangelo

DSC_0376 Michelangelo_Moses arte_roma_030_s_pietro_in_vincoli maxresdefault

San Pietro in Vincoli

Facciata
I vincula di san Pietro, reliquia per la contenere la quale venne costruita la basilicaSan Pietro in Vincoli è il nome di una basilica di Roma. È chiamata anche basilica eudossiana dal nome della fondatrice, l’imperatrice romana Licinia Eudossia, ed è famosa per ospitare il Mosè di Michelangelo.

Storia
La basilica fu fatta costruire nel 442 da Licinia Eudossia, figlia di Teodosio II e moglie di Valentiniano III. L’imperatrice fece costruire la chiesa per custodire le catene (in lingua latina vincula) di san Pietro che la madre, l’imperatrice Elia Eudocia, aveva avuto in dono da Giovenale, patriarca di Gerusalemme durante il suo viaggio in Terra Santa assieme alle catene che avevano legato il santo nel carcere Mamertino.

Secondo la leggenda il papa Leone I le aveva avvicinate per confrontarle e le catene si erano congiunte tra loro in maniera inseparabile.

Nella chiesa sarebbero stati nominati papa Giovanni II e Gregorio VII (1074).

L’edificio fu restaurato da papa Adriano I nel 780, nel 1471 da papa Sisto IV e nel 1503 da Giulio II, come Sisto IV appartenente alla famiglia dei della Rovere; al restauro di Giulio II risale l’architettura attuale della chiesa, con il portico d’ingresso.

Facciata
È preceduta da un portico a cinque arcate sostenute da ottogonali, aggiunto nel 1475. L’attribuzione a Baccio Pontelli è incerta.

Interno

L’interno è diviso in tre navate, separate da 20 colonne corinzie. La volta ribassata della navata centrale mostra un grande affresco di Giovanni Battista Parodi.
Subito a sinistra dell’ingresso c’è la tomba di Antonio e Piero del Pollaiolo, con i busti raffiguranti i due artisti fiorentini, sovrastata da un loro affresco.
La navata laterale di sinistra reca molte ricche sepolture di personaggi importanti della gerarchia ecclesiastica. Queste sepolture sono decorate da sculture allegoriche di grande interesse. Notevole è il mosaico, posto circa a metà della navata, di San Sebastiano: è questa l’unica rappresentazione in cui il Santo è rappresentato come un uomo anziano con la barba. In fondo alla navata, si erge l’organo.
La chiesa contiene nel 2° altare della navata destra un S. Agostino del Guercino ed il ritratto del cardinale Margotti del Domenichino che ha disegnato anche il sepolcro.

Sacrestia
Nell’altare della sacrestia sono conservate le catene di S. Pietro che danno il nome alla chiesa.

Le porte di bronzo che custodiscono la reliquia, del 1477 erano considerate opera di Antonio del Pollaiuolo, ma studi posteriori le attribuiscono al Caradosso.

Mosè

Il Mosè è una scultura marmorea (altezza 235 cm) di Michelangelo, databile al 1513-1515 circa, ritoccata nel 1542, e conservata nella basilica di San Pietro in Vincoli a Roma, nel complesso statuario concepito quale Tomba di Giulio II (in effetti il papa è sepolto in San Pietro insieme allo zio Sisto IV).

Tra le prime scolpite per il progetto del mausoleo del papa, fu anche l’unica tra quelle pensate fin dall’inizio ad essere usata nel ridimensionato risultato finale, che vide la luce solo dopo quarant’anni di tormentate vicende.

Il Mosè, grazie al suo vigore, al virtuosismo anatomico e alla sua imponenza (proporzionato al doppio del naturale) è una delle opere scultoree più famose di Michelangelo e della scultura occidentale in generale, esempio paradigmatico di quella “terribilità” che si riscontra nelle sue opere migliori.

Si immagina che già dal primo progetto della tomba di Giulio II, del 1505, il registro superiore dovesse essere decorato da quattro figure sedute a tutto tondo, di grandezza superiore al naturale per la collocazione rialzata, raffiguranti Mosè, appunto, San Paolo (entrambi avevano ricevuto la rivelazione divina), e le personificazioni della Vita attiva e della Vita contemplativa.

Nel progetto del 1513, ripreso dopo la morte del papa e ridimensionato nel 1516, le statue occupavano ancora il registro superiore, ma invece di affacciarsi sulle due facce del monumento isolato, si trovavano affiancate agli angoli di un monumento addossato a una parete.

Fu probabilmente in questo periodo che la statua del Mosè venne realizzata, quando l’artista scolpì anche i due Prigioni del Louvre (Schiavo morente e Schiavo ribelle), prima dell’avvio dei lavori in San Lorenzo per Leone X e Clemente VII.

La lavorazione del Mosè iniziò nel 1514, ma nel 1516 dovette interrompersi, quando sul viso della statua comparve una venatura nera; inoltre Michelangelo fece ritorno a Firenze.

Era necessario procurarsi un nuovo blocco di marmo ma, per problemi legati al trasporto, l’artista poté cominciare a lavorarlo sono negli anni tra il 1519 e il 1520. Nel 1521, la seconda versione della statua ormai finita fu trasportata a Roma dalla bottega fiorentina di Michelangelo e a Natale dello stesso anno fu collocata a sinistra dell’ingresso alla cappella del coro di Santa Maria sopra Minerva, in un tabernacolo creato appositamente.

Tuttavia, prima di esporre la statua si erano presentati nuovi problemi. Michelangelo aveva incaricato Pietro Urbano, in genere collaboratore valente e affidabile, di rielaborare per suo conto alcuni punti della figura; l’artista però non aveva dato prova dell’abilità necessaria.

Ne riferisce Sebastiano del Piombo da Roma in una lettera del 1521 indirizzata a Michelangelo a Firenze, in cui descrive i danni causati da Urbano, che alla fine furono riparati da Federigo Frizzi.

Secondo un documento, la statua subì una torsione 25 anni dopo la creazione. Per motivi religiosi Michelangelo girò la testa del Mosè: soltanto lui poteva essere in grado di girare la testa a una statua di marmo. Secondo questo documento, Michelangelo, avrebbe girato la testa del suo Mosè, accompagnandola con una torsione dinamica di tutto il corpo, dopo il marzo del 1542.

Sostiene ciò il maggiore studioso di Michelangelo, Christoph L. Frommel,. A ritrovare il documento citato da Frommel è stato proprio un restauratore, Antonio Forcellino, che, prima di procedere alla pulitura del marmo con impacchi di acqua distillata e carbonato di ammonio, ha passato quattro anni immerso in una ricerca filologica.

 

È così che Forcellino si è ritrovato tra le mani la lettera di un anonimo conoscente di Michelangelo che riferisce, poco dopo la morte dell’artista, come il maestro avesse girato la testa del Mosè solo in un secondo momento.

Il conoscente descriveva questo episodio su richiesta del Vasari, ma stranamente – nota Frommel – né quest’ ultimo, né la successiva storia dell’arte ne fanno riferimento. Dopo aver visto nella casa di Michelangelo il Mosè, questo informatore aveva commentato criticamente: «Se questa figura stesse con la testa in qua credo che forse facesse meglio».

E quando era tornato, due giorni dopo, Michelangelo gli aveva detto scherzando: «Non sapete, il Mosè ce intese parlare l’altro giorno et per intenderci meglio se è volto».

Ed egli aveva visto «che li aveva svoltata la testa et sopra la punta del naso gli haveva lasciata un poco della gota con la pelle vecchia, che certo fu cosa mirabile ne credo quasi che a me stesso considerando la cosa quasi che impossibile».

Durante il restauro altri indizi si sono aggiunti a confermare l’ipotesi: l’imponente barba è tirata verso destra, perché a sinistra sarebbe venuto a mancare il marmo per rifarla perpendicolare come era nella prima versione.

Per operare la torsione del corpo, il trono su cui Mosè è seduto viene abbassato a sinistra di 7 centimetri, mentre per appoggiare indietro il piede sinistro l’artista è costretto a stringere il ginocchio di 5 centimetri rispetto al destro.

Inoltre, esaminando la statua di spalle (cosa che non avveniva dai tempi di Canova) si è scoperto che vi è sopravvissuta una larga cintura scomparsa nella parte anteriore.

Il vero motivo che avrebbe spinto Michelangelo a girare la testa del Mosè sarebbe stato di ordine religioso.

Mosè non si volta afferrando la barba per domare la propria passione e salvare le tavole, come aveva suggerito Sigmund Freud. Secondo Frommel, distoglie lo sguardo dagli altari nell’abside e nel transetto dove venivano venerate le catene di San Pietro e concesse le indulgenze a innumerevoli pellegrini, proprio come se avesse visto un nuovo vitello d’oro.

La statua del Mosè occupa nel monumento a Giulio II la posizione al centro nel registro inferiore. Se nel progetto iniziale era solo una delle circa quaranta statue a tutto tondo previste, in quello finale ne divenne l’elemento primario poiché, come l’artista fece scrivere al suo biografo Ascanio Condivi, «questa sola statua è bastante a far onore alla sepoltura di papa Giulio».

Il profeta viene rappresentato in posizione seduta, con la testa barbuta rivolta a sinistra, il piede destro posato per terra e la gamba sinistra sollevata con la sola punta del piede posata sulla base. La posizione delle gambe ricorda quella del Profeta Isaia di Raffaello (1511-1512), che le fonti ricordano come elogiato dal Buonarroti.

Il braccio sinistro è abbandonato sul grembo, mentre quello destro regge le tavole della Legge, mentre la mano arriccia la lunga barba. Curiosamente le tavole della legge risultano rovesciate, come se fossero scivolate dalle braccia del Mosè.La statua, nella sua composizione, esprime la solennità e la maestosità del personaggio biblico. Celebre lo sguardo del Mosè definito come “terribile”: esso è stato interpretato come espressione del carattere di Michelangelo, irascibile, orgoglioso e severo, per il quale è stato appositamente coniato il termine “terribilità”.

Per quest’opera, Michelangelo si rifece a esempi quattrocenteschi, come il San Giovanni Evangelista di Donatello, e antichi come il Torso Belvedere e le antiche divinità fluviali. Da Donatello in particolare riprese la carica di energia trattenuta, soprattutto nel volto contratto e concentrato, ma amplificata da una maggiore carica dinamica, grazie allo scatto contrario della testa rispetto al corpo.

Le corna sul capo del Mosè, tipiche della sua iconografia, sono probabilmente dovute ad un errore di traduzione del Libro dell’Esodo (34-29), nel quale si narra che Mosè, scendendo dal monte Sinai, avesse due raggi sulla fronte.

L’ebraico “karan” o “karnaim” – “raggi” – potrebbe essere stato confuso con “keren” – “corna”. All’errore può aver contribuito anche il fatto che nel Medioevo si riteneva che solo Gesù potesse avere il volto pieno di luce.

Leggende

È legato a questa scultura l’aneddoto secondo il quale Michelangelo, contemplandola al termine delle ultime rifiniture e stupito egli stesso dal realismo delle sue forme, abbia esclamato «Perché non parli!?» percuotendone il ginocchio con il martello che impugnava.

A proposito della maestosa barba del Mosè, il Vasari disse che è scolpita con una perfezione tale da sembrare più «opera di pennello che di scalpello».

Secondo la fantasia popolare, nella barba del Mosè, sotto il labbro inferiore, leggermente a destra, Michelangelo avrebbe scolpito il profilo di papa Giulio II e una testa di donna.